Vi ringrazia una donna, vi ringrazia un movimento

Vi ringrazia una donna, vi ringrazia un movimento, di Chiara Lubich

 

Signore e signori tutti,

grazie anzitutto ai signori editori per questo premio assegnato ad una donna, con il quale hanno voluto onorare un lavoro letterario di tanti anni, proprio in quest’anno dedicato alla donna. Grazie, con la gioia al pensiero che, forse, quel lavoro è piaciuto a qualcuno ed ha fatto un po’ di bene.

Ma permettano che aggiunga al ringraziamento una confidenza: non sono mai stata tanto sorpresa in vita mia come quando mi ven­ne annunciato questo riconoscimento, perché io non ho mai scritto un libro, anche se parecchi portano il mio nome come autore.

Essi, infatti, sono raccolte, fatte da altre persone, di pensieri miei, di spunti, di conversazioni, di meditazioni, di discorsi, di brani di diario ed altro che via via negli anni ho appuntato semplicemente per servire il Movimento dei Focolari. E questo fatto accresce mag­giormente la mia riconoscenza.

E ringrazio pure tutti i signori e le signore che hanno voluto esse­re presenti oggi, qui, al Salone del libro, non solo per assistere alla celebrazione del cinquantesimo dell’UELCI (Unione Editori e Librai Cattolici Italiani), ma anche per questa premiazione.

Verso di loro mi sentirei davvero in debito se, data l’occasione, non dicessi qualche parola, non comunicassi almeno qualcosa del contenuto di questi libri. Esso riguarda una nuova spiritualità sorta nella Chiesa, circa cinquant’anni fa, una spiritualità tipicamente co­munitaria o collettiva: la spiritualità dell’unità. Una spiritualità di grande attualità, che è manifestazione di un segno dei nostri tempi.

Come si sa, infatti, nonostante tutte le tensioni del mondo contem­poraneo — quelle fra sud e nord, i conflitti in tante parti del mondo, l’esplosione di fenomeni di terrorismo ed altri mali del tempo presen­te — il nostro pianeta sembra tendere all’unità.

Lo dice lo Spirito Santo nel mondo cristiano, dove è esplosa la vo­lontà dell’unificazione delle Chiese dopo secoli di indifferentismo o di lotta: lo dice Giovanni Paolo II, che, col suo abbraccio universale a tutti i popoli, impersona questo concetto; lo ha detto il Concilio, la sua apertura al dialogo con le altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà; lo dicono — in altro campo — persine ideologie, ora superate, che pur miravano a risolvere i problemi del mondo in modo globale. Lo dicono enti ed organizzazioni internazionali. Fa­voriscono poi l’unità i moderni mezzi di comunicazione che fanno piccolo il mondo e lo portano tutto in ogni famiglia e comunità. Sì, il mondo tende all’unità. Ed è in questo contesto che occorre vedere anche l’esperienza del Movimento dei Focolari.

Una spiritualità dell’unità, dunque. Ma quali i principi operanti, le idee-forza, le linee di svolgimento — come direbbe Paolo VI — di questa spiritualità? È difficile spiegarlo in poche parole, perché una spiri­tualità nella Chiesa è una vita, è vita, è cristianesimo, è Vangelo, an­che se il tutto visto da una angolazione. Tuttavia tento di accennare ad almeno alcune delle sue idee-forza.

La convinzione che la nostra spiritualità fosse Vangelo è stata sempre così forte in noi che all’inizio del Movimento a nessuno è balenata l’idea di parlare alla Chiesa di quanto stava avvenendo. Non se ne vedeva la necessità. Forse che per voler essere veri cristiani, occorre­va avvertire il Vescovo?

Ma è stata proprio la traduzione in vita del Vangelo a scatenare a Trento, città natale del Movimento, dopo pochi mesi, una piccola rivoluzione. La rivoluzione evangelica appunto, per la mentalità e il modo di vivere di Cristo che andava sostituendo il nostro, con lo scandalo del mondo per questa nuova vita, col radunarsi di persone isolate e disperse in una comunità di notevole entità, con la comu­nione di beni spirituali e materiali: in pratica col fare di un gruppo numeroso di cristiani una porzione di Chiesa viva, giacché, come di­ce Tertulliano, «la Chiesa è pure lì dove tre, anche se laici, sono uniti nel nome di Cristo»1. E questa nuova realtà ormai non poteva rima­ner nascosta a nessuno, nemmeno al Vescovo che vi vide il dito di Dio.

1    tertulliano, De exort. cast., 7, PL 2, 971.

 

Ma è stato proprio mentre si credeva di vivere semplicemente il Vangelo, il Vangelo di tutti, il Vangelo di sempre, che inavvertita­mente Dio andava sottolineando nel nostro cuore alcune Parole che dovevano diventare i principi operanti della nuova esperienza religiosa.

La prima idea-forza su cui Dio ha costruito questa spiritualità è stata: Dio è amore (1 Gv 4, 8). Quale mutamento porta nelle persone questa verità, compresa in maniera completamente nuova, al contat­to col carisma del Movimento! La vita cristiana condotta prima, pur con una pratica coerente, appare adombrata d’orfanezza. Ma ora, ecco la scoperta: Dio è Amore, Dio è Padre!

Il nostro cuore, vissuto nell’esilio della notte della vita, s’apre e sa­le e s’unisce con Colui che lo ama, che pensa a tutto, che conta persi­ne i capelli del capo.

Le circostanze gioiose e dolorose acquistano un nuovissimo signi­ficato: tutto è previsto e voluto dall’amore di Dio. Nulla più può far­ci paura.

È una fede, questa, esaltante, che fortifica, che fa esultare. È una fede che fa piangere chi la prova le prime volte. È un dono di Dio che ci fa gridare: «Noi abbiamo… creduto all’amore…» (1 Gv 4, 16).

Ed è stata questa fede nell’amore che Dio aveva per noi che ci ha spinto a seguire quelle Parole del Vangelo che ci dicevano come ri­spondere con l’amore a questo amore. È stato qui che si è inchiodata nella nostra mente la frase: «Non chiunque mi dice: Signore, Signo­re entrerà nel Regno dei Cicli, ma colui che fa la volontà del Padre mio…» (Mi 7, 21). Dunque fare la volontà di Dio. Questo è amare Dio.

Fare la volontà di Dio non significa solo rassegnazione come spesso s’intende, ma la più grande avventura divina che può toccare ad una persona: quella di seguire non la propria meschina volontà, non i propri limitati progetti, ma Dio, e realizzare il disegno che Egli ha per ogni suo figlio, disegno divino, impensabile, ricchissimo.

La volontà di Dio è una perla preziosa; è stata per noi la scoperta d’una via di santità fatta per tutti.

La volontà di Dio infatti, giacché la possono vivere tutti, in qualsiasi luogo, situazione o vocazione si trovino, è la carta d’accesso del­le folle alla santità.

Se un primo principio operante, dunque, della nostra spiritualità è Dio Amore, una seconda idea-forza è: la volontà di Dio. Basterebbe far quella per essere perfetti cristiani.

Ma ecco che ci sentiamo spinti a scegliere nella vita una particola­rissima volontà di Dio, il comandamento che Gesù dice mio e nuovo:

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, co­me io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 12-13).

Questo comando, sigillato da un reciproco patto dalle persone del Movimento, è la tessitura spirituale di esso. E la sua pratica sineglossa produce effetti straordinari. Perché dov’è la carità e l’amore lì è Dio.

Chi comincia a viverlo con radicalità, avverte un cambiamento qualitativo nella propria vita interiore. Essa viene arricchita di for­za nuova, di ardore, di coraggio… Non è esagerato dire che l’attua­zione di questo comandamento produce una reale conversione.

Ed ha un effetto anche sul mondo che ci circonda: testimonia Cri­sto: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri», dice infatti Gesù (Gv 13, 35).

L’amore reciproco fra cristiani è un piccolo riflesso della vita trinitaria vissuto fra gli uomini.

Il comandamento nuovo prepara inoltre all’attuazione di un’al­tra idea-forza: la Parola«Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mi 18, 20). È questa per il Movimento la norma d’ogni norma, la premessa d’ogni altra regola: assicurare la presenza spirituale di Cristo tra i fratelli e dare così senso e vita alla fraternità soprannaturale, che Gesù ha portato sulla terra per tutta l’umanità.

«Gesù in mezzo a noi» si rende presente pienamente se siamo uniti nel suo nome e cioè in Lui, nella sua volontà, nella carità reciproca che crea l’unità. E dove è l’unità il mondo crede. «Che tutti siano una sola cosa affinchè il mondo creda» (cfr. Gv 17, 21) conferma il Vangelo.

È Cristo che lo converte, Cristo fra i suoi, uniti nel Suo nome.

Un altro “principio operante” della nostra spiritualità, essendo essa cristianesimo, non poteva non essere la croce. Per una singola­re circostanza, Dio ha fissato l’attenzione nostra su un particolare di questo mistero: sull’abbandono di Gesù, su Gesù che «verso le tre gridò a gran voce:… “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abban­donato?” …» (Mt 27, 46). È il culmine dei suoi dolori — come affer­mano mistici e teologi —, è la sua passione interiore.

È il dramma di un Dio che grida: « Dio mio perché mi hai abban­donato?». Infinito mistero, dolore abissale che Gesù ha provato co­me uomo, e che da la misura del suo amore per gli uomini, poiché ha voluto prendere su di sé la separazione che li teneva lontani dal Padre loro, e la separazione che vigeva fra loro colmandole.

Il Movimento porta con sé una ricchissima esperienza, che dimo­stra come qualsiasi dolore dell’uomo sia riassunto in questo partico­lare dolore di Gesù. Non è simile a Lui l’angosciato, il solo, l’arido, il deluso, il fallito, il debole…? Non è immagine di Lui ogni divisio­ne dolorosa fra fratelli, fra Chiese, fra brani d’umanità? Non è figu­ra di Gesù che perde, per così dire, il senso di Dio, che s’è fatto «pec­cato» per noi (cfr. 2 Cor 5, 21), il mondo ateizzante, laicista, deca­duto in molte aberrazioni? Amando l’Abbandonato il cristiano tro­va il motivo e la forza per non sfuggire queste divisioni, questi mali, ma per accettarli per Lui e portarvi il proprio personale rimedio.

Ecco allora Gesù Abbandonato, chiave dell’unità.

L’alfabeto italiano ha sole 21 lettere, ma chi non le conosce e non apprende alcune regole grammaticali, rimane analfabeta per tutta la vita. Il Vangelo è un libro piccolo, ma coloro che non vivono le parole in esso contenute, rimangono cristiani — per così dire — sot­tosviluppati. Essi danno un’immagine della Chiesa che non testi­monia Cristo suo fondatore.

Lo Spirito Santo ha suggerito al Movimento, sin dall’inizio, una radicale rievangelizzazione del proprio modo di pensare, di amare, di volere, di vivere.

La Parolaè una presenza di Dio. Il comunicarsi con essa rende liberi, purifica, converte, porta conforto, gioia, dona sapienza, pro­duce opere, discopre vocazioni, anche se può suscitare l’odio del mon­do.La Parolagenera Cristo nelle proprie anime e in quelle altrui. A tutti i membri del Movimento viene presentata ogni mese una frase compiuta del Vangelo con un piccolo commento, da mettere in pra­tica. La chiamiamo: Parola di vita. Ecco un altro cardine della no­stra spiritualità.

Poi ancora: l’Eucaristia. «L’effetto proprio dell’Eucaristia è la tra­sformazione dell’uomo in Dio»2, dice Tommaso d’Aquino, cioè la sua divinizzazione, perché per la Comunione — come dice il Vati­cano II3 — il cristiano si muta nel Cristo che riceve. La totalità dei membri del Movimento sin dall’inizio, ha sentito spontaneamente di doversi comunicare ogni giorno con Gesù Eucaristia, E questa è una delle principali cause della forte realtà d’unità che s’è creata nell’Opera stessa. Gesù, prima di chiedere al Padre che «tutti siano una cosa sola come tu, Padre, sei in me e io in te…» (Gv 17, 21) aveva istituito il sacramento che rendeva ciò possibile.

2tommaso d’aquino, «Seni.» IV, dist. 12, q.2, a.i.

3Cfr. LG 26.

 

Altro dolcissimo principio operante: Maria, madre del Movimento. E questo dice tutto. Dio ce l’ha data e l’abbiamo sempre sentita così.

Come un bimbo istintivamente non sa dire per prima parola che mamma, così il Movimento sin dal suo nascere, per lo Spirito Santo — pensiamo — non è stato capace di dar altro nome di quello di Maria a se stesso: Opera di Maria (il Movimento è stato approvato dalla Chiesa anche con questo nome), e ai suoi incontri più vari: Mariapoli… Maria è modello d’ogni membro del Movimento, per­ché, come Lei, ha avuto la funzione primordiale d’esser madre del Cristo fisico, il Movimento — l’abbiamo visto — ha come funzio­ne, che deve precedere tutte le altre, quella di mettere al mondo — come diceva un Vescovo — spiritualmente Cristo fra gli uomini.

Ecco, dunque, alcuni principi della spiritualità dell’unità.

Ma che cosa ha di caratteristico questa spiritualità? Essa — come è stato detto — è comunitaria, collettiva. Si sa come, in questi due­mila anni dalla venuta di Gesù,la Chiesaabbia visto fiorire nel suo seno, l’una dopo l’altra, e a volte contemporaneamente, le più bel­le, le più ricche spiritualità, sicchéla Sposadi Cristo si è vista ador­na delle perle più preziose, dei brillanti più rari che hanno formato e formeranno ancora tanti santi.

In tutto questo splendore una nota è sempre stata costante: è so­prattutto l’individuo, la persona singola che va a Dio. E questa una conseguenza ancora di quel lontano periodo della storia in cui i cri­stiani, scemato il primitivo fervore che aveva visto stringersi la co­munità di Gerusalemme in un cuor’solo ed un’anima sola, e, passa­te le persecuzioni, pensarono di salvare la propria fede ritirandosi nel deserto per attuare soprattutto il primo comandamento, amare Dio. È l’epoca dell’anacoresi.

Se questo salvò tanti principi cristiani e fece dei santi, non si sot­tolineò allora il valore del fratello nella vita spirituale e si vide nel­l’uomo anche un ostacolo per andar a Dio. Apa Arsenio diceva: «Fuggi gli uomini, e sarai salvo»4.

E ancora molti secoli dopo, nel famoso libro dell’Imitazione di Cri­sto, è stato scritto: «Disse un saggio: “Ogni volta che andai fra gli uomini, me ne tornai meno uomo”»5.

Spiritualità individuali dunque, anche se il mistero del Corpo mi­stico di Cristo non permette mai che siano esclusivamente tali, in

4Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. mortari, Roma 1975, p. 97.

5Imitazione di Cristo, I, XX, 1-6.

quanto ciò che avviene in una persona ha sempre riflesso sulle altre. Ed anche perché questi cristiani offrivano ed offrono a Dio preghie­re e penitenze in favore dei fratelli.

Ma oggi i tempi sono cambiati. In quest’epoca lo Spirito Santo chiama con forza gli uomini a camminare accanto ad altri uomini, anzi ad essere, con tutti quanti lo vogliono, un cuore ed un’anima sola. E lo Spirito Santo ha spinto il nostro Movimento, vent’anni prima del Concilio, a fare questa solenne sterzata verso gli uomini.

Secondo la nostra spiritualità si va a Dio proprio passando per il fratello. «Io-il fratello-Dio», si dice. Si va a Dio insieme con l’uo­mo, insieme con i fratelli, anzi si va a Dio attraverso l’uomo.

Da studi di nostri esperti — almeno in una prima visione genera­le — risulta che una spiritualità collettiva, come questa dell’unità, appare per la prima volta nella Chiesa. Ci sono state, sì, nel passato esperienze che si avvicinano ad essa, soprattutto sorte da chi mette­va l’amore a base della vita spirituale. È da ricordare, ad esempio, san Basilio, per il quale il primo comandamento riguardante l’amo­re di Dio ed il secondo riguardante l’amore del prossimo erano po­sti a base della vita della sua comunità.

E soprattutto sant’Agostino, per il quale l’amore reciproco e l’u­nità avevano il supremo valore.

Ma P. Jesùs Castellano, ad esempio (professore di Teologia Spi­rituale presso il “Teresianum” di Roma, e consultore della Con­gregazione perla Dottrinadella Fede, che conosce profondamente la nostra spiritualità), dice che «nella storia della spiritualità cristia­na si afferma: “Cristo è in me, vive in me” ed è la prospettiva della spiritualità individuale, della vita in Cristo; o si afferma: “Cristo è presente nei fratelli” e si sviluppa la prospettiva della carità, delle opere di carità, ma manca in genere scoprire che se Cristo è in me e nell’altro, allora Cristo in me ama Cristo che è in te e viceversa (…) e vi è il donare ed il ricevere».

«Esiste — afferma il Castellano — anche una spiritualità comu­nitaria, ecclesiale, a Corpo mistico. (…) Si parla in genere di questa spiritualità come di una corrente del nostro secolo, secolo della ri­scoperta della Chiesa.

Ma quel “di più” che (il Movimento) ci da con la spiritualità col­lettiva è la visione e la prassi di una comunione, di una vita ecclesia­le, “a Corpo mistico”, nella quale vi è e la reciprocità del dono per­sonale e la dimensione del diventare “uno”.

Anche quando esistono intuizioni o affermazioni negli autori di oggi su questa dimensione della teologia e della spiritualità, manca in loro il modo concreto di proporre questo come stile di vita, e di incarnarlo in una esperienza; dalle cose più semplici come «te­nere Gesù in mezzo a noi», che è il massimo e il minimo, alle di­mensioni più impegnative come l’economia di comunione, l’inculturazione»6.

Nello stesso tempo una spiritualità collettiva è stata prevista per i nostri tempi da teologi contemporanei ed è richiamata dal Conci­lio Vaticano II.

Karl Rahner, parlando della spiritualità della Chiesa del futuro la pensa — dice — nella «comunione fraterna in cui sia possibile fare la stessa basilare esperienza dello Spirito». Egli afferma: «Noi anziani siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la no­stra provenienza e la nostra formazione. (…) Se c’è un’esperienza dello Spirito fatta in comune, comunemente ritenuta tale, (…) essa è chiaramente l’esperienza della prima Pentecoste nella Chiesa, un evento — si deve presumere — che non consistette certo nel casuale raduno di una somma di mistici individualistici, ma nell’esperienza dello Spirito fatta dalla comunità (…). Io penso che in una spiritua­lità del futuro l’elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinan­te, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada»7.

Il cardinale Montini nel 1957 aveva detto che in questi tempi or­mai l’episodio deve farsi costume e che il santo straordinario, pur essendo venerato, cede il posto in certo qual modo alla santità di popolo, al popolo di Dio che si santifica8.

È un’era dunque, la nostra, in cui il collettivismo cristiano viene in piena luce, in cui si cerca, oltre il regno di Dio nelle singole per­sone, il Regno di Dio in mezzo alle persone.

Le spiritualità individuali inoltre manifestano in genere precise esigenze, specie in coloro che vi sono più impegnati: la solitudine e la fuga dalle creature per raggiungere la mistica unione conla Tri­nità dentro di sé.

6      castellano J. ocd, Lettera a Chiara a proposito della spiritualità collettiva (dell’unità) dell’Ope­ra di Maria, 21 giugno 1992.

7      rahner K., Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in Problemi e prospettive di spiritua­lità, a cura di T. goffi e B. secondin, Brescia 1983, pp. 440-441.

8      Cfr. G.B. montini, Discorsi su la Madonna e su i Santi (1955-1962), Milano 1965, pp. 499-500.

Per custodire la solitudine si esige il silenzio. Per tenersi separati dagli uomini si usano il velo e la clausura, oltre un particolare abito. Per imitare la passione di Cristo si fanno le più svariate penitenze, a volte durissime, digiuni e veglie.

Nella via collettiva si conosce pure la solitudine e il silenzio, per attuare, ad esempio, l’invito di Gesù a chiudersi nella propria stanza a pregare, e si fuggono gli altri se portano al peccato, ma in genere si accolgono i fratelli, si ama Cristo nel fratello, in ogni fratello, Cri­sto che può essere vivo in lui o può rinascere anche per l’aiuto che noi gli offriamo. Ci si vuole unire con i fratelli nel nome di Gesù, onde aver garantita la sua presenza in mezzo a noi.

Nelle spiritualità individuali si è quindi come in un magnifico giar­dino (la Chiesa) e si osserva e si ammira soprattutto un fiore: la pre­senza di Dio dentro di sé. In una spiritualità collettiva si amano e si ammirano tutti i fiori del giardino, ogni presenza di Cristo nelle persone. E la si ama come la propria. E giacché anche la via comuni­taria non è e non può esser solamente tale, ma anche pienamente per­sonale, è esperienza generale che quando ci si trova da soli, dopo aver amato i fratelli, si avverte nell’anima l’unione con Dio. Basta infatti, ad esempio, prendere un libro in mano per fare meditazione che Egli dentro vuole che si parli.

Perciò si può dire che chi va al fratello in modo corretto, amando come il Vangelo insegna, si ritrova più Cristo e più uomo. E, poiché si cerca di essere uniti con i fratelli, si ama in modo speciale la paro­la, che è mezzo di comunicazione.

Si parla per farsi uno con i fratelli. Si parla per comunicarsi le pro­prie esperienze sulla vita della Parola di vita o sulla propria vita spiri­tuale, consci che il fuoco non comunicato si spegne e che questa co­munione d’anima è di grande valore spirituale. Dice san Lorenzo Giustiniani: «Nulla infatti al mondo rende più lode a Dio e più lo rivela degno di lode, quanto l’umile e fraterno scambio di doni spirituali…»9.

Si parla nelle grandi manifestazioni per tenere acceso in tutti il fuoco dell’amor di Dio.

E quando non si parla si scrive: si scrivono lettere, articoli, libri, diari perché il Regno di Dio avanzi nei cuori. Si usano tutti i mezzi moderni di comunicazione. E ci si veste come tutti per non separar­ci da nessuno.

 

9L. giustiniani (San), Disciplina e perfezione della vita manastica, Città Nuova Editrice, Roma 1967, p. 4.

 

Anche nel Movimento si praticano le mortificazioni indispensa­bili ad ogni vita cristiana, si fanno le penitenze, soprattutto quelle consigliate dalla Chiesa, ma si ha una stima particolare per quelle che offre la vita d’unità con i fratelli. Essa non è facile per «l’uomo vecchio», come lo chiama san Paolo, sempre pronto a farsi strada dentro di noi.

L’unità fraterna poi non si compone una volta per tutte; occorre sempre ricostruirla. E se, quando l’unità esiste, e per essa la presen­za di Gesù in mezzo a noi, si sperimenta immensa gioia, quella pro­messa da Gesù nella sua preghiera per l’unità, quando l’unità vien meno subentrano le ombre, il disorientamento. Si vive in una spe­cie di purgatorio. Ed è questa la penitenza che dobbiamo essere pronti ad affrontare. È qui che deve entrare in azione l’amore per Gesù crocifisso e abbandonato, chiave dell’unità; è qui che per amore di Lui, risolvendo prima in noi ogni dolore, si fa ogni sforzo per ri­comporre l’unità.

Anche nel Movimento si prega ed è particolarmente sentita la pre­ghiera liturgica, come la Santa Messa, perché preghiera della Chie­sa. Ed è caratteristica la preghiera collettiva insegnata da Gesù: «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cicli ve la concederà» (Mt 18, 19).

Per chi percorre la via dell’unità, Gesù in mezzo è essenziale. Pe­na il fallimento personale, dobbiamo sempre ravvivare la sua pre­senza nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nei nostri conve­gni, nelle cittadelle. È Gesù in mezzo che porta quel “di più” che caratterizza il nostro carisma.

Come due poli della luce elettrica, pur essendoci la corrente, non fanno luce finché non si uniscono, ma la producono appena uniti, così due persone non possono sperimentare la luce tipica del cari­sma dell’unità finché non si uniscono in Cristo mediante la carità.

Per chi percorre questa via tutto ha significato e valore nel lavo­ro, nello studio, anche nella preghiera e nella tensione alla santità, come nell’irradiazione della vita cristiana, se ha prima con i fratelli Gesù in mezzo, che è la norma delle norme di questa vita. Qui si raggiunge la santità se si fa verso Dio una marcia in unità.

Seguono questa spiritualità le persone più diverse di ambo i sessi, di ogni età, ogni razza, di ogni lingua, di ogni popolo, di ogni ceto sociale, perché essa è arrivata ormai fino agli ultimi confini della terra e trasborda nelle altre Chiese e religioni come in persone di altre convinzioni. Per cui il mondo, la società in tutti i suoi ambiti, i suoi aspetti, le sue vocazioni, viene via via intriso di divino. Ed ogni realtà viene clarificata, consacrata, perfezionata.

Santa Teresa d’Avila, dottoressa della Chiesa, parla di un “ca­stello interiore”: la realtà dell’anima abitata al centro da Sua Mae­stà, da scoprire e illuminare tutto durante la vita superando le varie prove. E questo è un culmine di santità in una via prevalentemente individuale, anche se poi lei trascinava in quest’esperienza tutte le sue figliole.

Ma è venuto il momento, almeno ci sembra, di scoprire, illumi­nare, edificare, oltre il “castello interiore”, anche il “castello este­riore”. Noi vediamo tutto il Movimento come un castello esteriore, dove Cristo è presente e illumina ogni parte di esso, dal centro alla periferia.

Ma se noi pensiamo fin dove arriva questa spiritualità, anche fuori della struttura dell’Opera, come ad esempio a responsabili della so­cietà e della Chiesa, comprendiamo subito che questo carisma non fa solo dell’Opera nostra un castello esteriore, ma tende a farlo del corpo sociale ed ecclesiale.

Il Santo Padre, parlando recentemente ad una settantina di Ve­scovi, amici del Movimento, ha detto: «II Signore Gesù… non ha chiamato i discepoli ad una sequela individuale, ma inscindibilmente personale e comunitaria. E se ciò è vero per tutti i battezzati vale in modo particolare (…) per gli Apostoli e per i loro successori, i Vescovi»10.

Così questa spiritualità abbraccia tutto il popolo di Dio che di­venta, per questo carisma, più uno e più santo.

 

10    giovanni paolo II a un gruppo di Vescovi amici del Movimento dei Focolari, in «OR», 17 febbraio 1995, p. 5.