Editoria e mondo spirituale. Libro dell’anima o mercato religioso?, di Domenico Del Rio, giornalista de “La Stampa”
Per la verità, a trattare un tema come quello esposto, mi sento un po’ fuori atmosfera. L’atmosfera qui, oggi, è di esaltazione, di festeggiamenti, di riconoscimenti. Si ascoltano parole di compiacimenti editoriali: si ascoltano dentro i rumori festanti di questa parata libraria, si ascoltano dagli articoli e dai servizi che ho letto sui giornali. Allora, non so se, oggi, ci possa essere ascolto per altre parole. Perciò, mi verrebbe più facile assecondare la raccomandazione dell’Ecclesiastico (32, 4): «Ubi auditus non est, non effundas sermonem».
D’altra parte, non vorrei fare la figura dello schizzinoso spirituale, del gallo in feccia (feccia è l’immondizia), come diceva san Bernardino da Siena quando predicava su cose molto materiali: «Hai mai visto il gallo in feccia? Va in punta di piedi e con le ali alzate, per non sporcarsi…».
Ecco, san Bernardino ha le ali alzate… Chiara Lubich, qui premiata oggi, ha le ali alzate… Io non ho ali, e sto sulla terra col piede tutto posato…
Mi proverò, quindi, forse rozzamente, ad effondere qualche considerazione, come mi è stato chiesto.
Conosco un poco, direi dal di dentro, il mondo degli scrittori e il loro rapporto con lo spirituale. Conosco solo dall’esterno il mondo degli editori, anche se, per alcuni, in amicizia. Forse degli editori ho un’idea sbagliata, o meglio un’idea antica. Nella mia mente e nella mia fantasia, io fondo l’editore con lo stampatore. E, d’altra parte, mi piace questo fondere insieme le due figure, perché mi viene dall’amore per il libro, per il volume stampato, quando è stampato con
cura, con quella bellezza e con quel fascino che nascono dalla pagina sulla quale si sono impressi i caratteri di stampa.
Si pensi la cura con cui, un tempo, certo quando non c’era la massificazione editoriale, si ponevano le scritte di ex libris o di ex donis: «Questo libro è delle monache del munistero di Sancto Jacopo di Ripoli in Firenze. E chi l’accatta abbia carità di presto renderlo e senza nessuna lesione». «Questo libro si è di donna Francesca de’ Cambi. Chi l’avessi in prestanza sia contento di tornarlo». «Hunc si perdidero librum, mihi redde, repertor, nec tibi numina dent poenas tartareas».
Per questo, mi è fatica concepire con il libro un rapporto commerciale. Non mi piace vedere il libro come oggetto di mercato. Allora, forse sbaglio, forse vedo male, ma quando penso all’editore, penso al mercante, al manager industriale, che non prende tra le mani il libro che egli stesso industrialmente crea, che non sente il piacere del fruscio delle dita sulle pagine del suo stesso prodotto.
È capitato, talvolta, in passato, che il rapporto dell’editore con il libro sia stato così personale e così stretto da considerare quasi come intruso l’autore stesso. Si sa di quel tal editore dell’800 che pubblicò il libro di Silvio Pellico e lo intitolò: Le sue prigioni… Sue, perché dell’autore, non dell’editore!
Una volta erano spesso gli editori a fare la presentazione o la prefazione al libro. Solo alcuni esempi di quelli che ho in casa io! Le epistole di San Girolamo (Venezia, 1562) hanno una presentazione dell’editore Lucantonio Giunti, che è un piccolo trattato sulla virtù della gratitudine, anche se segnato da un po’ di cortigianeria nel fare la dedica del libro al vescovo di Brescia. Con bella prosa rotonda: «Tra molte virtù, dalle quali ornamento riceve l’humana vita, credono i savi meritatamente che la gratitudine tenga il primo luogo, e quella virtù primierante si conosce nel rendere grazie al sommo Dio, dalla cui benignità a tutte l’hore tanti benefici abbiamo». Le vite parallele di Plutarco ,Napoli 1857). L’editore Francesco Rossi Romano scrive: «Offriamo al colto pubblico una nuova ristampa nella quale nulla abbiamo trascurato perché essa, secondo il nostro solito, presentasse il duplice vantaggio dell’economia e della bontà».
C’è, poi, un curioso Prologo dell’editore, di Nicola Zanichelli, al libro Nova polemica di Lorenzo Stecchetti, il poeta anticlericale romagnolo (Bologna, 1909): «Mi sono messo a rubare il mestiere ai miei autori, poiché divento scrittore anch’io. Già chi bazzica col lupo impara a urlare ed io bazzicando cogli autori ho imparato a far prefazioni. Gli autori le fanno a modo loro, secondo i precetti dell’arte, per disporre i lettori alla benevolenza. Io mi contento di una parte più modesta; quella del cane che sta sull’uscio per abbaiar dietro ai ladri». I ladri in questione erano gli stampatori pirati, che gli stampavano i libri di frodo con il nome della sua editrice (un vizio già comune nel secolo scorso, di cui si lamentavano soprattutto gli inglesi nei confronti degli americani, che stampavano di tutto, senza curarsi dei diritti d’autore… Come avviene adesso…).
Ai nostri tempi, ho trovato un esempio di Due parole dell’editore, cioè di Piero Gribaudi, al libro Don Bosco e l’uomo, di Sabino Palumbieri: vi si narrano alcuni ricordi personali nei rapporti con i salesiani.
Se ho portato questi pochi esempi è solo per indicare quello che mi fa piacere: questa sollecitudine, affettuosa, preoccupata, dell’editore per il frutto concreto della propria attività: l’attenzione al libro più che al commercio.
Ahimè, si dirà, ecco il discorso moralistico! Eh, sì, il mio discorso è moralistico! Per la verità, io dico che, in qualche modo, traspare, si percepisce dai libri pubblicati, dal complesso dell’attività editoriale, se c’è più attenzione al libro o al mercato e se il lettore viene considerato soltanto un compratore. Direi che il lettore, il colto pubblico, cui si rivolge l’editore napoletano di Plutarco, se ne accorge.
Poiché qui, nella ragione di questa Esposizione, si mettono insieme libro e comunicazione, vorrei aprire una parentesi proprio su questa parola: pubblico. Il pubblico, colto, c’era nel 1857. Era quello che riceveva il libro. L‘inclito pubblico o il gentilpubblico era quello che ascoltava e guardava a teatro. Il pubblico era chi si poneva in azione culturalmente: colto, inclito, gentile.
Oggi, pubblico ha subito una degenerazione di significato. Oggi, nella società televisiva, nella società dei mass-media, non c’è la gente, non c’è il popolo. Oggi, c’è il pubblico, ma non è di per sé né colto, né inclito, né gentile. E il pubblico televisivo, è il pubblico dei giornali. I politici non dicono: la gente. Dicono: il pubblico. Il pubblico non è chi si pone in azione culturalmente, ma chi accoglie passivamente.
In fondo, poi, tutti diventiamo pubblico. Perdiamo ciò che è conoscere, perdiamo la ricerca del conoscere. Il conoscere ci viene ammannito quotidianamente da altri. «Abbiamo perduto la conoscenza nell’informazione», ha scritto Thomas Eliot.
Siamo sommersi dall’informazione. L’informazione è la nuova schiavitù, l’imprigionamento della ragione e dei sentimenti. Forse non è un paradosso quello che afferma uno scrittore russo, Gourdijeff: «Non è libero un paese che ha l’informazione».
Michele Serra, un satirico che dice cose serie, ha scritto: «L’informazione è diventata una mercé, è diventata un mercato. Che quantità di verità c’è dentro quelle che noi chiamiamo notizie?».
La verità! Ogni mattino, con il giornale, mi arriva sul tavolo la verità. Ogni sera, con la televisione, mi arriva in casa la verità. Tutti, ogni giorno e tutto il santo giorno, mi scaricano addosso montagne di verità. E mi viene in mente il poeta spagnolo Antonio Machado: «La verità? La verità vieni con me a cercarla. La tua, tientela!».
Ecco, questa è la situazione del mondo della comunicazione, dell’informazione, di cui ho qualche conoscenza diretta, poiché da anni «in ipso vivimus, movemur et sumus», per dirla come san Paolo agli ateniesi, in cui io sono a lavorare, a faticare e… a penare.
Ora, siamo qui in questa atmosfera di Salone del libro e della comunicazione religiosa. Forse avete usato la parola Salone per sfuggire alla parola Fiera. Ma c’è anche il “Salone dell’automobile”… E, d’altra parte, siamo in ambiente e strutture di Fiera. Fiera è mercato… Si può dire anche di questa editoria, che guarda al mondo spirituale, la stessa cosa che si dice dell’informazione: «è diventata una mercé, è diventata un mercato»?
Certo, anche il mercato fa parte di quel mondo terreno, per il quale, secondo la Teologia delle realtà terrestri, Dio nel Genesi ha detto «Crescete e moltiplicatevi». Ma io non so a che punto della scala dei valori del Regno di Dio stia il mercato o in che misura esso possa mescolarsi o accordarsi con i valori dello spirito o del soprannaturale. Certo, il mercato! E vedo dei bei mescolamenti! E non riesco a non avere fastidio quando la pubblicità televisiva o la pubblicità sui giornali mi mette di mezzo un prete in tonaca, e magari in chiesa, per propagandare un’automobile o un apparecchio stereo; o mi fa sfilare in un chiostro una comunità di monache che fanno finta di pregare e invece si sussurrano della bontà e dell’eccellenza di non so cavolo che cosa; o mi fa entrare in un convento di frati golosi, che esultano per quello che sta preparando il fraticello cuoco in cucina…
Mi chiedo se anche l’editoria cattolica (diciamo, per non offendere tutti, una parte di editoria cattolica) non operi questi mescolamenti. A me pare di sì. Potrei portare esempi, ma non vorrei urtare suscettibilità di singoli…
Mi chiedo perché andare a finire dentro un mondo che il poeta spagnolo Juan Goytisolo già descriveva così più di trent’anni fa: Questo mondo difficile, / nel quale oggi si vive / con il dubbio perenne di non sapere / quale marca di sapone sia migliore, / o quale attrice del cinema /possieda il petto più pubblicitario. / Questo orrendo frastuono di tram che propagandando auto / e di auto che propagandano calze, / tutta questa orribile / confusione di cartelli e di strilli, / il pandemonio pazzo / di cui alcuni vivono, / senza lasciar vivere gli altri.
Ora, che cosa succede a collocarsi in questo tipo di mondo, ad accogliere le norme di questo tipo di mondo? Io, non so, può darsi che sia necessario.
Certo, uno scrittore, un autore, può anche fare il Cincinnato, ritirarsi a coltivare l’orto. Tutti ricordiamo sempre, come esibizionismo di slogan, il titolo di un libro di Cesare Pavese: Lavorare stanca. Ce n’è un altro di Marino Moretti, un libro uscito nel 1939. È intitolato: Scrivere non è necessario. Ma se poi uno scrive e vuoi pubblicare deve ricorrere a un editore. E, per l’editore, forse Navigare necesse est in questo tipo di mondo.
Però che accade? Voi che siete editori che guardano allo spirituale, che siete e vi definite associativamente editori cattolici, con i vostri libri o le vostre riviste, avrete successi commerciali. Avrete belle tirature. Il mondo laico, il mondo del mercato, il mondo del business, il mondo della pubblicità, quel mondo descritto da Juan Goytisolo, vi dirà che siete bravi, che siete efficienti, ma poi, sotto sotto, questo tipo di mondo non ha stima di voi.
Il mondo giornalistico (credetemi, lo conosco bene, ad esso bene o male o sfortunatamente appartengo), proprio con il suo gusto del pettegolezzo, con la sua smania di concorrenza, è il migliore rivelatore di questo comportamento e di questi giudizi. I giornali, o gli uomini dei giornali, diranno che voi, gli editori dei libri dell’anima, siete bravi, che avete molta roba in catalogo, che ora vi state espandendo nel mercato elettronico, ma non vi stimano, non vedranno un segno di serietà e di nobiltà culturale in quel vostro aggettivo di cattolici.
Perché? Perché diranno che siete come loro, che anche voi sentite soltanto il richiamo del successo e del mercato. E, perciò, si occuperanno di voi, come fanno in questa occasione del Salone, dal punto di vista mercantilistico. Raramente o con grande fatica si interesseranno al contenuto del vostro prodotto editoriale, del libro, attraverso una recensione. Forse, nonostante essi vivano e si alimentino in questo mondo affaristico, è una specie di sottile disprezzo che caricano su questo mescolare realtà dello spirito e mercato.
È la stessa considerazione che fanno sulla Chiesa, sul Vaticano o sull’Opus Dei o sui Gesuiti. Vedono tutto dal punto di vista del potere economico o politico:la Chiesaè una potenza, il Vaticano è una potenza, l’Opus Dei è una potenza, i Gesuiti sono una potenza… E quando dicono così, non è stima che esprimono.
Può darsi che il mondo laico sbagli, che il mondo giornalistico sbagli, che io sbagli a vedere le cose così. Questa mia, oggi, non è che
una Meditatio pauperis in solitudine, come è il titolo di un’operetta ascetica del Trecento, ma forse anche per una certa editoria una meditatio potrebbe essere utile, una meditatio su qualcosa che si trova nel Discorso della montagna: «Attenzione, perché dove sono le vostre ricchezze, là c’è anche il vostro cuore» (Le. 12, 34).
E ricchezza non è soltanto denaro o guadagno. Ricchezza è anche piacere di potenza, di espansione editoriale, di prevalenza sugli altri, di successo, con tutto il contorno di concorrenza, invidia, mistificazioni pubblicitarie…
Quando vedo un libro che mi parla di cose dello spirito, lo vedo sul banco di una libreria, nella recensione di un giornale, nella pubblicità in Tv o in un manifesto, mi chiedo: che cos’è?…
E un Libro dell’anima (il titolo di un’opera di Nino Salvaneschi), è un Libro d’ore, il libro della preghiera monacale, ma anche il titolo di una raccolta di poesie di Rainer Maria Rilke: M’aggiro intorno a Dio, ad una torre / antichissima, e giro da millenni… / Dio, che mi sei vicino, se una volta / in lunghe notti con bussar tenace / ti disturbo, è perché troppo di rado / il tuo respiro ascolto… ?
È libro dell’anima o è mercato del religioso?
Ecco, vedo un libro che ha fatto grande rumore, che è balzato in testa alle classifiche di vendita, anche se ora se ne sta andando verso il basso, anzi vedo che in qualche classifica è ormai sparito del tutto. Lo avete capito: è Varcare la soglia della speranza, il libro-intervista di Giovanni Paolo II.
Il libro del papa è stato definito un caso serio fra tutte le leggerezze librarie che occupano le classifiche di vendita. Certo, è un caso serio anche per un altro aspetto: proprio per quel mescolamento di cose dello spirito e mercato e commercio e pubblicità. Il titolo religioso che attira l’attenzione solo perché fornito dal grande editore con un enorme apparato consumistico e pubblicitario.
Il libro del papa: affidato, consegnato totalmente alla macchina pubblicitaria e del commercio industriale (i librai che litigano con i supermercati, per paura che abbassino il prezzo…; a Porta Portese, a Roma, lo sconto di seimila lire…). La fretta di pubblicare: la traduzione tedesca con errori… Banalizzato nelle anticipazioni delle domande fatte al papa: Lei crede in Dio? Crede nell’Inferno?… La gente pensa di trovare curiosità sull’ai di là, o crede che sia un libro di boutades del papa…
Lancio su falsità storiche: primo libro scritto da un papa!… (Si dimenticano: Gregorio Magno, Pio II, Urbano Vili, Leone XIII…)… Si è prodotta una concorrenza ingannevole, solo per lucro, con operazioni editoriali di disturbo: la velocissima uscita in anticipo di vecchi testi del papa, ad opera di case editrici sia cattoliche che laiche, ingenerando l’equivoco che quello fosse il nuovo libro del papa, al cui gioco si sono prestati alcuni giornali…
Entrati così sfacciatamente nella macchina consumistica e commerciale, ci si deve sottomettere a questa macchina anche quando essa produce stroncatura. «Banalità spirituali» è stato giudicato il libro del papa dal critico del «Washington Post» (… col pericolo di sgradevoli conseguenze sull’importante mercato americano!).
Infine, con l’effetto di averlo fatto diventare, per molta gente, una specie di libro talismano da tenere in casa…, senza che lo leggano, dopo aver superato le prime due o tre pagine.
C’è stata una polemica, nei giorni scorsi, tra gli editori italiani. L’ha sollevata l’editore Laterza, lamentando il torpore civile degli editori italiani, anche di quelli una volta più impegnati culturalmente (e politicamente). Gli altri un po’ si sono difesi, un po’ hanno dovuto dargli ragione.
Giulio Bollati ha dichiarato: «Oggi, trionfa l’editoria di intrattenimento, la vendita dei libri-oggetto». Era una polemica, ma anche una specie di esame di coscienza, tra editori laici.
C’è qualcosa del genere che si può dire anche agli editori cattolici o religiosi? Non so come la pensiate voi, qui, interessati a questo Salone del libro: il libro, se capisco bene, inteso come strumento di comunicazione religiosa. Se non siete d’accordo, prendetela come provocazione, come stimolo di coscienza, una semplice mia meditatio pauperis in solitudine…, di un povero, un po’ svanito, al di fuori delle concretezze della vita…
Ma, forse proprio per questo mio svanimento, per finire, vorrei andare a curiosare in Paradiso. Trovo nella vecchia Filotea del canonico Riva l’elenco dei protettori di professioni, arti e mestieri:
Librai: san Giovanni di Dio, che si dedicò al commercio ambulante di libri e poi aprì una piccola libreria in Granada…
Legatori di libri: san Pietro Celestino, prima di diventare papa…
Tipografi: sant’Agostino, «non perché ne esercitasse la professione, ma perché con le tante opere da lui scritte diede tanto da lavorare alle tipografie»…
Per gli editori, nella vecchia filotea del canonico Riva non c’è ancora nessuno. So che vostri protettori, ora, sono due santi dell’Ottocento: don Bosco e Antonio Maria Claret, fondatore della famosa «Libreria religiosa» a Madrid.
A me piacerebbe mettercene un altro: San Bernardino da Siena che, quando andava a predicare a Firenze, frequentava volentieri Piazza della Signoria, dove si davano convegno gli umanisti nelle botteghe dei cartolari, che erano i librai, ma anche gli editori del tempo, che facevano scrivere i libri dagli amanuensi e li commerciavano (i primi libri a stampa in Italia nel 1465). Anche ai cartolari, agli editori, Bernardino dava i suoi rimproveri. Citava l’Apocalisse (17, 13): «Nessuno può comprare o vendere se non ha il marchio della Bestia e il numero della Bestia».La Bestia è l’Anticristo, il suo marchio, il suo numero, è il denaro.
Un giorno, in Piazza dei Signori, Giannozzo Manetti, nel crocchio degli umanisti, lo abbordò. «Tu — disse — ci mandi tutti in dannazione».
«No — rispose il santo — io non vi mando persona. I mancamenti degli uomini sono quelli che ve li mandano».