Dall’UECI all’UELCI, cinquant’anni di storia, di Mario Cattaneo, presidente UELCI
La seconda edizione del Salone del libro e della comunicazione religiosa (non si dimentichi il religioso che va oltre il cattolico) si intreccia con un anniversario che l’uelci ha voluto ricordare a Milano invece che nella tradizionale sede di Roma: i suoi 50 anni di vita.
Benché il primo verbale riguardante il suo avvio porti la data del 24 agosto 1944, viene registrata in esso l’attesa fine della guerra come momento di vero inizio della vita dell’Unione. Quindi, senza forzature, possiamo collocare nella primavera del 1945 e con le prime adesioni delle editrici del Nord (Morcelliana di Brescia e Libreria Editrice Fiorentina, il 2 maggio 1945) la concreta e rappresentativa operatività del nuovo organismo.
Anche la nascita dell’UECI va ricondotta al clima di riconquistata libertà associativa, ai fermenti di impegno qualificante e pubblico delle tante risorse cattoliche che attendevano la fine del conflitto per ricostruire percorsi di presenza, dare concretezza a progetti elaborati nella sofferenza di una prolungata vigilia: con la volontà di non essere soltanto spettatori o giudici della nuova stagione che iniziava, ricca di problemi inquietanti, ma anche di non esili promesse.
I propositi sono molti sin dall’inizio, i progetti anche: nella prima uscita ufficiale, il 10 dicembre1944, l’affrontamento del tema “Constatazioni e orientamenti attuali dell’editoria” (I. Giordani) e nel maggio 1945, “Fortune e sfortune delle idee religiose nell’editoria italiana” (P. Mondrone s.j.); del giugno1945 l’incarico a Mons. Garofalo per una edizione del Vangelo e delle Lettere degli apostoli.
Nei verbali dei primi anni ricorre assai spesso il nome di Mons. Giambattista Montini come maestro, consigliere, pregato di risolvere anche gravose questioni di carattere molto pratico. Alla “Crisi del libro, del libro cattolico, del libro cattolico italiano” viene dedicata la seconda assemblea generale degli oltre 80 editori iscritti nel giugno 1947.
Questi cenni di cronaca relativa ai primi anni di vita per constatare, se mai ne avvertissimo davvero la necessità, come certi problemi accompagnino da sempre la vita delle istituzioni, invadendo progetti e scelte con regolare continuità, anche se in situazioni qualitativamente diverse. Non certo per pigrizia di assuefazione, saremmo motivati per non accreditare di novità gravosi problemi che ci colpiscono per la loro inattesa difficoltà.
Sempre, fin dall’inizio, è sottolineato, in modo chiaro e convincente, che lo scopo preciso dell’Unione è la formazione spirituale e culturale dei soci. Altre mete si accompagnano a questa, a volta a volta, assecondando risposte a necessità diverse; ma l’Ueci non assume mai la fisionomia di un sindacato che tutela o rivendica diritti “di categoria”. È il luogo dello scambio di opinioni, dell’affrontamento di questioni che riguardano l’editoria in generale e quella di ispirazione cristiana in particolare.
Documenti di autentico interesse, testimonianze che andrebbero considerate nella loro ricchezza, sono in proposito gli Atti dei convegni editoriali degli anni 50-60: due decenni particolarmente fecondi di dibattiti, colloqui, incontri, e per i temi affrontati e per la presenza, in qualità di relatori o di semplici partecipanti, dei più autorevoli rappresentanti dell’editoria italiana: da Valentino Bompiani (più volte relatore) a Carlo Verde, da Federico Gentile a Tancredi Vigliardi Paravia, da Francesco Vallardi a Giulio Einaudi; e ancora: Severino Pagani, Ulrico Hoepli, Aldo Olschki, Ugo Mursia, Laterza e Principato, Salani, Paoletti. Nomi evocanti epoche poste, irrimediabilmente, dietro le nostre spalle; nelle quali, malgrado diversità e contrasti, un accomunante senso della cultura, una condivisa prospettiva della responsabilità dell’editore, il rifiuto della contrapposizione e del ghetto in nome dell’ideologia, permettevano fecondità di colloqui e utilità di confronti.
Non inutile, in proposito, rammentare alcuni tra i molti temi affrontati: “L’editore al servizio della persona”, “II libro come elemento essenziale del bene comune”, “L’editore al servizio della cultura”, “Rapporti tra editoria di cultura e editoria industriale”, “L’editore come operatore di cultura”, “Editoria, istruzione e scuola”, “La politica del libro italiano all’estero”, “I giovani come lettori e come autori”, “Le trasformazioni sociali e l’editoria”.
Lo scampolo di una trama di rapporti, confidenze e amicizie che i diversi presidenti dell’UECI, da Storchi a Coletti, da Salani a Fausto Minelli a Dorè a Passagliotti, Stefano Minelli, Don Meotto, coltivarono con autorevolezza e sensibilità. Attento e appassionato l’impegno del “mitico” P. Martegani, direttore de «La Civiltà Cattolica»: un’eredità di impegno, testimonianza e colloquio che l’UECI ha cercato di non disperdere; anzi, per quanto possibile, di incrementare.
A cinquant’anni dalla sua nascita, sull’esempio di situazioni europee, i’ueci, divenuta uelci, si apre alla presenza dei librai. Un’esperienza appena avviata, che ha naturalmente bisogno di rodaggio e dalla quale si attendono contributi significativi per la vita del libro, per la qualità dell’editoria, per la capacità di testimonianza.
«Non esiste più un’intellettualità cattolica» si è sentenziato in questi giorni, mescolando le dimensioni, più o meno plausibili, di una testimonianza culturale dei cattolici, con la loro diaspora politica, con le flessioni della presenza del volontariato. Sullo sfondo, il pessimismo con il quale si preannunciano i bilanci del convegno ecclesiale di Palermo. E, in controtendenza, i sostenitori, un po’ invecchiati, del luogo comune del ghetto editoriale cattolico, scoprono, come inedito interessante, l’intreccio con la cultura laica.
Il ghetto, dunque, esiste o ne possiamo constatare, pacificamente, l’estinzione? L’editoria che vuoi onorare l’aggettivo cattolico (pesante per l’inquietudine che porta sempre con sé) non può non avvertire i segni della carenza o magari della dissipazione o della superficialità dell’impegno culturale dei cattolici. Percepisce anche la misura della propria complicità nelle manchevolezze individuabili o negli sprechi da condannare. Mentre non si meraviglia, anche perché da sempre non si è attribuita esclusività di diritti o di meriti, che l’editoria cosiddetta laica offra ineccepibili e persuasivi libri iscrivibili in area religiosa o cattolica. Quel che vorrebbe ripetere, innanzitutto a se stessa, con chiarezza e senza presunzione, è la volontà di un serio, coraggioso, puntuale impegno culturale. Come leale contributo alla vita della società italiana, come traduzione di cosciente responsabilità nei confronti della Chiesa italiana.
Esiste un deficit culturale nella realtà cattolica italiana, si sono smarrite presenze o si è annacquata la radicalità di certe domande. Esemplarità di tradizioni manomesse, fatiche di costruzioni disperse con fughe verso traguardi poco “cattolici” sotto ogni aspetto.
Se ripartire dalla cultura sta diventando una condivisa parola d’ordine, un invito convincente nella Chiesa italiana (ma i guadagni rifluiranno a servizio di tutta la comunità italiana), i’uelci intende dichiarare la sincerità dell’impegno, il rigore nelle scelte non dimenticando che «anche la prudenza, in taluni casi, consiglia l’audacia».
Un impegno editoriale perché la cultura diventi una grande passione, un investimento rassicurante. E il libro, in tale prospettiva, come Bernanos auspicava per i suoi, «si offra alla mercé dei passanti».
Questa preoccupazione si traduce, quest’anno e non a caso, nell’assegnazione del premio «UELCI-Autore dell’anno 1995» a Chiara Lubich, fondatrice del “Movimento dei focolari”, autrice di libri che hanno raggiunto, nelle lingue più diverse, tre milioni di copie.
Ma il riconoscimento a Chiara Lubich, che va ben oltre l’entità delle pagine scritte e delle copie vendute, può essere commentato con queste parole autobiografiche di Don Giuseppe De Luca, indimenticato maestro di cultura e di fede: «Abbiamo tentato di piegare i libri alla nostra vita e non la vita ai libri; e dalla cultura abbiamo voluto non l’appagamento di una fatua curiosità, non l’ornamento né la vanità né la vita materiale, ma la verità di noi stessi e la coscienza di questa verità… Qui trovammo Dio».